La volpe e la mela, considerazioni sulla presenza degli psicologi nei gruppi appartamento

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Partendo dalla definizione della professione di psicologo presente nella Legge n. 56 del 18 febbraio 1989, si può dire che  “La professione di psicologo comprende fra le altre anche “[..]le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità ”; e si può a ragione chiedersi dove si declinino abilitazione e riabilitazione, in particolar modo nel mondo dei cosiddetti Gruppi Appartamento.

Tale forma di intervento, insieme agli alloggi assistiti ed in generale a progetti individuali con supporto logistico abitativo, è definibile Residenzialità leggera.

Quanto sopra è stato possibile in Piemonte grazie alla dcr 357, che recepiva e metteva in pratica lo spirito della legge 180 e della 833. In tale ottica, il gruppo appartamento è considerato un utile strumento successivo o alternativo alle comunità protette, flessibile, calibrato sulle esigenze dei pazienti che hanno trovato e trovano in normali alloggi, spesso situati nei centri cittadini, un efficace ed efficiente stimolo all’avvio di percorsi riabilitativi.

La residenzialità leggera è un modello che si colloca quindi come realtà intermedia tra il territorio –  pazienti seguiti dai CSM presso le proprie abitazioni –  e le istituzioni comunitarie in senso lato.

Il gruppo appartamento può e deve quindi essere considerato un luogo in cui è possibile avviare una funzione riabilitativa e talvolta una funzione di cura; uno spazio-tempo dove i soggetti in grave difficoltà rispetto alle proprie situazioni di vita, possono soggiornare e abitare per riprendere il proprio progetto di vita, in cui la quotidianità non è solo pianificata, ma usata per ri-storicizzare e ri-mentalizzare; il quotidiano diviene un possibile mediatore e strumento per la cura della psiche.

Tenuto conto che

–   “La riabilitazione è l’insieme delle misure mediche, psicologiche, psichiatriche e sociali che si armonizzano all’interno di un programma elaborato e orientato alla restituzione o alla conservazione dell’autonomia ottimale, o comunque della migliore autonomia possibile” (J. Wertheimer, 1981).

– Nei gruppi appartamento si possono evidenziare diverse aree di intervento nella riabilitazione: quella lavorativa (cooperazione con la collettività, divisione del lavoro e individuazione di ruolo sociale), quella dell’affettività (casa, famiglia, amore, sessualità, espressione e condivisione delle emozioni), quella delle relazioni sociali (amicizia, interesse comunitario, comunicazione e compartecipazione emotivo-affettiva) (Fulcheri, 2010).

Si può affermare senza ombra di dubbio che all’interno di queste aree le competenze psicologiche appaiono diffusamente riconosciute: dalla costruzione del progetto lavorativo, all’accompagnamento del paziente presso il luogo in cui svolge la borsa lavoro (in macchina, durante l’accompagnamento il paziente racconta paura e speranze legate al progetto lavorativo); lo psicologo osserva, discute e costruisce un senso anche relativamente all’area dell’affettività (quanti discorsi intorno ai rapporti con i familiari, quante ansie condivise e pensate dallo psicologo rispetto all’andare a casa o tornare da casa); dal mattino (lo psicologo saluta il paziente assonnato con un buongiorno), all’organizzazione della giornata (cosa facciamo oggi), all’organizzazione dei turni (chi fa la spesa, chi pulisce il bagno), al colloquio fatto in balcone con una sigaretta, dalla telefonata della mamma del paziente etc.

In questo scenario, come si possono declinare le competenze e le funzioni dello psicologo in modo sistematico e coerente?

Quella che segue è un’astrazione possibile dal valore euristico che trovi punti di repere laddove tutto risulta più sfumato.

  1.  Funzione/competenza diagnostica: si riferisce alla conoscenza della psicopatologia e all’osservazione clinica, al riconoscimento e alla comprensione delle dinamiche intrapsichiche e relazionali proposte nella quotidianità. Per diagnosi non si fa riferimento esclusivamente alla nosografia, ma a un processo complesso e continuo di valutazione e lettura del funzionamento di personalità che si rivela nella quotidianità, fondamentale per orientare il percorso di cura. Quante volte le diagnosi non cambiano più se non in peggio? Nelle nostre osservazioni, gli psichiatri dei Servizi oberati dai casi, pressati dalle urgenze e ridotti nei ranghi, non sempre sono disponibili o hanno il tempo di ripensare le diagnosi, nel senso di cui sopra, e quindi sovente i progetti individuali languono o si consumano in meri presidi della cronicità
  2. Sostegno psicologico alla/nella quotidianità: il paziente ha bisogno di una realtà su misura, che risponda alle sue esigenze, che si ponga in continuità con le sue esperienze passate, presenti e future, somatiche e psichiche, da cui partire per continuare a costruire il suo vissuto (M. Sassolas, 2001). Inoltre, di particolare importanza è la possibilità di vivere uno spazio mentale e fisico in cui comprendere e supportare la crisi, vista non come fallimento del progetto terapeutico, ma come passaggio foriero di possibilità di cambiamento e di trasformazione. Nel quotidiano e negli atti del quotidiano: quando lo psicologo fa la spesa con i pazienti o prepara la cena con loro, quando passeggia nel paese o beve un caffè al bar con loro, mette in atto strumenti psicologici (osservazione, costruzione di significati legati alle azioni dei pazienti e al loro modo di relazionarsi con il mondo e con lo psicologo stesso); propone nuove modalità di interazione con il mondo esterno, legando queste modalità alla conoscenza del suo mondo interno; stimola e rassicura, partecipa empaticamente alle fatiche vissute nel quotidiano e nelle azioni nel quotidiano.
  3. Lavoro sul mondo interno e relazionale nella quotidianità : il paziente grave fatica a pensare e teme di immaginare; una condizione estrema caratterizzata da privazione di immagini e di pensiero e dal tradimento delle parole. Questo significa che la parola, principale mezzo dello psicologo, non può essere l’unico strumento terapeutico nel percorso di cura del paziente inserito in un progetto di Residenzialità Leggera. La competenza dello psicologo in questo contesto diviene il pensare, pensare in équipe e coi pazienti, così da rianimare le loro immagini anche attraverso la condivisione e “per mezzo” della quotidianità. Da questi presupposti si configurano gli “oggetti ” e “le azioni parlanti” (Racamier,1980), entrambi strumenti di cura dello psicologo che rimangono sul piano concreto ed effettivo e che permettono al paziente di attivare un processo di simbolizzazione primario e di mentalizzazione. Questi assumono un valore transizionale, in quanto stanno tra il paziente e lo psicologo, così come stanno tra il mondo della realtà pragmatica e quello della realtà psichica. Gli “oggetti e le azioni del quotidiano” hanno la funzione di “parola” e, se lette attraverso competenze psicologiche, mettono in luce condensati di significati relativi al mondo interno del paziente, offrendo una possibilità di ristrutturazione mentale, affettiva e relazionale. Queste “azioni”, spesso frutto di una costante interazione tra paziente e psicologo, se decifrate finiscono col diventare patrimonio di riflessione ed elaborazione da parte del gruppo curante e hanno il potere di rimettere in movimento situazioni apparentemente bloccate e immodificabili e promuovere processi evolutivi. Infine, il lavoro attraverso il controtransfert permette l’elaborazione in equipe delle emozioni suscitate dai pazienti nel gruppo dei curanti, al fine di orientare l’intervento di cura ed agire in modo pensato nella quotidianità.
  4. Attenzione alla dimensione istituzionale e all’“organizzazione che cura”: le competenze psicologiche si dispiegano spesso anche nell’attenzione alla dimensione istituzionale e organizzativa del lavoro nella residenzialità. L’attività diagnostica e riabilitativa permette di comprendere il funzionamento delle istituzioni che gravitano intorno all’ospite, per poi utilizzare tale comprensione per orientare in maniera più efficace l’intervento con il paziente, il gruppo di convivenza, quello curante e quello familiare. Questo significa promuovere e preservare una funzione pensante nell’equipe e nelle istituzioni, in un campo in cui spesso le urgenze, le esigenze di servizio, gli agiti, corrono il rischio di gettare ombre nella clinica. In secondo luogo, un intervento nella residenzialità connotato in senso psicologico come lavoro sul mentale, prevede l’impegno alla progettazione, costruzione e gestione di dispositivi terapeutici pensati e organizzati per un lavoro di mentalizzazione e attribuzione di senso alla vita psichica e relazionale degli ospiti. In quest’ottica, ogni aspetto della quotidianità può essere pensato e utilizzato per svolgere quelle funzioni di riabilitazione e cura che crediamo i gruppi appartamento e gli alloggi supportati debbano e possano ancora avere.
  5. Attenzione al territorio e relazione col sociale: nel trattare “tecnicamente” (Fasolo, 2007) il gruppo umano o, se si preferisce, nell'”utilizzo “competente” (ibidem) dei gruppi” possiamo, vedere applicarsi le competenze e le funzioni dello psicologo. La conoscenza della psicopatologia, l’osservazione, il riconoscimento e la comprensione delle dinamiche intrapsichiche e relazionali, l’attenzione alla dimensione istituzionale e all’organizzazione che cura, già descritte come funzioni e competenze dello psicologo, possono e devono essere impiegate anche nelle e per le “ambientazioni” (Pontalti, ). Immaginando un continuum che va da un massimo di assistenzialismo ad uno di autosufficienza e considerando i Gruppi Appartamento in prossimità del secondo dei due estremi, possiamo vedere come il prendersi cura da un vertice psicologico dell’individuo e del contesto nel quale questo è inserito, come conferma ancora una volta Fasolo, “aumenterebbe di molto la possibilità per i pazienti di essere socialmente integrati con la gente comune, e dunque gioverebbe di molto alle sorti della guarigione”. Riconoscendo allo psicologo una ulteriore funzione di connettore, mediatore o facilitatore della tessitura della rete relazionale tra il paziente e la sua famiglia, tra questi e i vari professionisti e servizi che si occupano della cura del paziente ed, infine, tra quelli appena menzionati ed il territorio, in una spirale che racchiude individui ed ambiente, è possibile giungere alla comprensione, ri-significazione e ri-abilitazione degli effetti naturali o spontanei generati dal fare esperienza di gruppo che, come direbbe Yalom, è “un fatto della vita”. E’ la risposta ad un programma di territorialità, che in un primo momento enfatizza l’abitare come esperienza curativa, per poi assumere valenza di supporto al trattamento, in quanto il focus della cura si sposta verso il territorio di appartenenza (P. Rigliano, L. Rancilio, 2003). In questa prospettiva uno degli elementi considerato di primaria importanza nelle strutture residenziali è la rete intesa, in senso neuronale, come l’insieme di tutto l’organismo sociale (agenzie, servizi d’utenza, operatori del mondo professionale, sanitario, della formazione, della cultura); essa crea un modello di residenzialità eterocentrato che si rapporta sempre con la comunità, differente dal modello auto-centrato che si rapporta solo con la rete istituzionale (Ibidem). I membri dello staff della struttura, lo psicologo, gli amici e i familiari, “possono fornire nuove esperienze e nuove risposte per rafforzare l’Io del paziente e per migliorare le sue relazioni oggettuali”, determinando una evoluzione del suo funzionamento sociale (Gabbard, 2011, p.174).

In conclusione poniamo l’accento su un ultima funzione possibile per lo psicologo che operi nella residenzialità leggera abitando gli stessi luoghi e gli stessi tempi dei pazienti. Una funzione trasversale che include ed evidenzia quelle su esposte, che qui noi definiamo Funzione di Filtro Fuzzy; evidente il debito con i concetti della Fuzzy Logic, di cui in questa sede e malamente richiamiamo: la possibilità di stabilire un ponte tra modo di procedere di tipo quantitativo e modo di procedere di tipo qualitativo nella “scienza psicologica”, le attività di Tuning e la spinta ad interpretare il significato delle parole come risultato di un complesso gioco linguistico di “contrattazione” tra gli interlocutori. A guisa di esempio proviamo a calarci nella pratica all’interno di una normale sequenza di riabilitazione come da alcuni immaginata o normativamente auspicata: vedremmo da un lato i pazienti con il loro progetto terapeutico individuale, che spesso è datato e non aggiornato, dall’altro una serie di “operatori di base” deputati alla quotidianità (educatori a vario titolo, riabilitatori psichiatrici, oss, colf etc). Questi operatori passano moltissimo tempo con i pazienti e poi in genere riferiscono in riunione d’equipe allo Psichiatra del Servizio quanto osservato e fatto. Sovente gli operatori di base sono coordinati da un educatore o da uno psicologo che in genere ha un rapporto privilegiato con il Servizio ma che non trascorre molto tempo a contatto con i pazienti. Il dispositivo multiprofessionale ha i più nobili intenti e grandi potenzialità, ma a parer nostro è debole di fronte all’attuale situazione del personale strutturato ASL. A fronte di ore trascorse con un paziente le equipe durano poco, sono spesso piene di ingombri e comunque sono giudicate insufficienti in termini di tempo dagli stessi operatori. Abbiamo sentito questo lamento più volte, anche con equipe dalla durata di otto ore. Accade inoltre che talvolta i medici siano reperibili, in ritardo o assenti. Il curante, spesso uno psichiatra, accolte le indicazioni degli operatori di base, detta la linea di cura, talvolta collegata al progetto, e spesso identica a se stessa negli anni. E’ la malattia mentale ad essere cronicizzante di per sé, o lo sono i nostri dispositivi di cura? Gli operatori di base non dialogano sul versante diagnostico e spesso l’atteggiamento che hanno con loro i curanti è più supervisivo che di collaborazione alla pari pur con ruoli diversi. Le informazioni raccolte dal detentore del progetto clinico e legalmente responsabile, il medico, sono talvolta quelle pre-pensate dallo stesso sul modello della profezia che si auto avvera. Il tutto è drammaticamente distorto dalla mancanza di tempo, dall’urgenza continua e perenne che sembra strozzare il pensiero, soffocandolo ed obbligando tutti a correre. Lo psicologo proposto come sopra, presente laddove si trova il paziente, può permettersi in un dialogo quasi inter pares di riproporre quesiti diagnostici, ri-pensare progetti e fornire un filtro dinamico allo psichiatra che quasi salti un passaggio o comunque lo renda più fluido. Con questo non si propone un modello PSI che preveda a divinis l’esclusione di professionalità altre, bensì vogliamo evidenziare una realtà esistente, usata, sottopagata e soprattutto sottovalutata, in primis dagli psicologi stessi. A condizione di incardinare in una dimensione epistemologica forte la presenza degli psicologi nella quotidianità della residenzialità leggera, possiamo dichiararne le virtù unicamente quando si verifichino le condizioni di cui sopra e non tout court quando uno psicologo vicaria un educatore.

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